IL MASSACRO DI SALUSSOLA 9 MARZO 1945

(Versione rivista e ampliata dell'articolo pubblicato su La Nuova Provincia di Biella del 30.06.2012)

 

All’inizio del gennaio 1945 le formazioni partigiane del Biellese occidentale furono sottoposte ad una serie di attacchi da parte fascista, condotti da elementi del R.A.U. (Reparto Arditi Ufficiali): era il preludio alla vasta operazione di rastrellamento denominata “Hochland” (Altipiano), che avrebbe preso il via il 12 gennaio.

 

Tra il 4 e il 5 gennaio i garibaldini delle brigate 109ª e 110ª (XII Dvisione Garibaldi "Nedo") attaccarono congiuntamente il presidio fascista di Vallemosso, nel tentativo di alleggerire la pressione del nemico contro le brigate Garibaldi 75ª e 76ª, schierate sulla Serra.

 

In previsione di “Hochland”, il comando della XII Divisione prese la decisione di mettere in atto il piano di “pianurizzazione” già in precedenza elaborato. 

 

Le tre brigate che costituivano la formazione dovettero quindi sganciarsi dalle basi site in Valsessera: la 50ª scese nella zona della Baraggia e dell’autostrada Torino – Milano; la 110ª raggiunse il Novarese; la 109ª raggiunse dopo una "lunga marcia" il Monferrato, dove si impegnò nella lotta contro i nazifascisti affiancandosi alle formazioni partigiane locali. 

 

 

Alla fine di febbraio, stabilizzatasi la situazione nel Biellese, il comando della XII divisione decise di fare rientrare nel Biellese la 109ª brigata.

  

Uno dei distaccamenti che componevano l’unità, il "Benvenuto Zoppis", la notte del 1 marzo si trovò a passare nei pressi di Livorno Ferraris; infreddoliti e spossati da diverse ore di marcia, i garibaldini decisero di chiedere ospitalità presso un casolare che sorgeva sulla sponda sinistra del canale Cavour, Cascina Spinola.

 

Il gruppo (trentatre uomini) si sistemò all’interno dell’abitazione, tralasciando però di organizzare un servizio di guardia: «Noi – scrisse nella sua relazione Sergio Canuto Rosa "Pittore", vice commissario del distaccamento e unico superstite del massacro del 9 marzo – supponendo dalle informazioni precedenti la zona perfettamente libera abbiamo commesso l’irreparabile e tragico sbaglio di non fare la guardia, addormentandoci tutti, chi nelle scuderie, chi nelle stalle e sui fienili».

 

L’errore si rivelò fatale: i partigiani furono risvegliati dalle grida dei fascisti della OP "Macerata" – «su le mani banditi!» – i quali, forse istruiti da un delatore, avevano circondato la cascina bloccando ogni via di fuga.

 

I garibaldini, costretti ad arrendersi senza aver potuto opporre resistenza, furono caricati sui camion e trasportati prima a Livorno Ferraris e poi presso il comando tedesco di Tronzano, che aveva sede nella scuola locale: «Angherie, percosse e insulti da parte dei soldati germanici e dei militi e infine anche la consegna di ogni avere: soldi, cosette personali».

 

Dopo un superficiale interrogatorio, il gruppo fu diviso: dodici partigiani, scelti a caso, furono portati a Vercelli, mentre i restanti ventuno rimasero a Tronzano fino al 5 marzo per essere poi trasferiti a Santhià nella caserma dei carabinieri occupata dagli alpini della 2ª compagnia RAP (Raggruppamento Anti Partigiani) di Cigliano: «4 giorni passati in piccole celle da 5 persone che noi si occupava in dieci».

 

 

L’8 marzo parve aprirsi uno spiraglio di salvezza per i ventuno garibaldini: fu infatti prospettata loro l’ipotesi di uno scambio con un gruppo di prigionieri tedeschi in mano partigiana, scambio che sarebbe avvenuto nei pressi di Salussola.

 

La sera dello stesso giorno la colonna di camion, preceduta in testa da un’autoblinda, si diresse verso il piccolo paese ai margini della Serra.

 

Giunti a destinazione, i partigiani dello "Zoppis" furono presi in consegna dai militi del 115° battaglione M "Montebello", i quali si scagliarono immediatamente sui prigionieri con un’inspiegabile ferocia: «[…] i militi del "Montebello" […] ci hanno massacrato per metà a pugni e a calci, picchiando coi mitra e coi moschetti, rompendo la testa, e la mandibola a parecchi: numerosi garibaldini perdevano sangue a fiotti dalle ferite della testa della bocca e dal naso. Uno principalmente punzecchiato dalla baionetta sembrava dovesse spirare da un minuto all’altro, io sentivo il capo indolenzito dai colpi dati col mitra e da parecchi pugni presi sul viso […] Sentivo dei discorsi che facevano fuori della porta che volevano torturarci prima di essere fucilati, parlavano di incisioni, geroglifici fatti col pugnale, di membra staccate per mezzo degli automezzi col classico colpo a strappo».

 

Perché tanta violenza? Forse perché i militi del "Montebello" ardevano dal desiderio di vendicare i quattro commilitoni rimasti uccisi due giorni prima, il 6 marzo, durante un attacco condotto dai partigiani della brigata Giustizia e Libertà "Cattaneo" contro una colonna di autoveicoli transitante sulla carrareccia Salussola – Zimone.

 

 

Dopo una notte da incubo, arrivò l’alba e con essa la decisione di eliminare tutti i prigionieri; e questo malgrado il comandante del reparto tedesco aggregato all’unità fascista avesse confermato al canonico Dotto (il quale trovandosi in paese si era subito prodigato insieme al parroco per evitare il peggio) l’intenzione di procedere allo scambio.

 

Intorno alle 5 il primo gruppo di garibaldini fu schierato lungo il muro che all'epoca separava la piazza dal cimitero, davanti al quale stava il camion su cui era stata piazzata una mitragliatrice.

 

Un milite fascista, rivolgendosi a "Pittore", disse che «era troppo comodo morire tutto d’un colpo» e che avrebbe inciso con il pugnale sullo stomaco del partigiano la scritta «Bandito, Ribelle e Comunista»: «[…] ha preso a levarmi il giubbetto. Nello stesso tempo che mi faceva scivolare le maniche fuori dalle braccia mi sono sentita una mano libera e ho reagito con violenza volando addosso al mio aguzzino e buttandolo a terra».

 

Dopo aver respinto un secondo milite, che riuscì comunque a colpirlo al capo con la canna del fucile, "Pittore" fu affrontato da un terzo fascista: «[…] io l’ho chiuso fra le mie braccia rotolando assieme sul terreno e poi giù per la ripida china fra i rovi e i sassi e le acacie; si è iniziata fra noi una breve lotta che per me voleva dire vita o morte».

 

L’esperto garibaldino fu in grado di divincolarsi e di mettere fuori combattimento l’avversario; poi, buttandosi a capofitto nella boscaglia, riuscì a sottrarsi ai fascisti che si erano lanciati al suo inseguimento.

 

Due ore dopo, spossato dalla fatica, con il volto tumefatto e coperto di sangue, raggiunse il comando della V Divisione Garibaldi a Sala Biellese; mentre si allontanava da Salussola, udì le prolungate raffiche di mitraglia che falciavano i suoi compagni.

 

 

La notizia di quanto avvenuto a Salussola non tardò a diffondersi in tutto il Biellese, suscitando lo sgomento e l'indignazione della popolazione civile; il Cln di Biella proclamò uno sciopero di protesta che «fu raccolto in modo plebiscitario e coinvolse non solo le fabbriche, ma ogni attività» (Dellavalle) e imponente, malgrado il divieto imposto dai fascisti, fu la partecipazione popolare ai funerali delle vittime.

 

Le stesse autorità repubblicane si mostrarono in difficoltà a trovare una giustificazione per tanta efferatezza.

 

Il giornale fascista "Il Lavoro Biellese" preferì dare poco risalto alla notizia e travisò volutamente lo svolgimento dei fatti, insistendo sulla relazione tra la fucilazione dei partigiani del distaccamento "Zoppis" e l’agguato del 6 marzo e omettendo qualsiasi riferimento alle torture: «I comandi militari […] dato il continuo ripetersi di attentati e di imboscate in cui quasi giornalmente cadono valorosi combattenti […] onde porre un argine a questa vile condotta delle bande ribelli che sempre si sottraggono al combattimento leale […] per azzannare alle spalle e colpire anche e ripetutamente i morenti, sono stati costretti ad adottare misure severissime: a Salussola, a conclusione dell’imboscata partigiana, venti banditi catturati con le armi alla mano, sono stati fucilati». 

 

 

Due dei responsabili dell’eccidio, il capitano Giuseppe Barretta e il tenente Dario Raviglione, entrambi appartenenti al 115° btg. "Montebello", trovarono la morte nei convulsi giorni che seguirono all'insurrezione partigiana: il primo a Sordevolo il 30 aprile 1945, il secondo a Vercelli il 12 maggio dello stesso anno.

 

 

Galleria Fotografica

Le fotografie provengono dall'archivio Cesare Valerio, di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Biella (È vietata la riproduzione e la diffusione delle immagini senza la preventiva autorizzazione del titolare dei diritti) e dall’archivio fotografico dell'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia (Fondo Tempia)