GLI EFFETTI DELLA CRISI DEL '29 NEL BIELLESE - 2

(Versione ampliata dell'articolo pubblicato su La Nuova Provincia di Biella del 07.12.2011)

 

Nel primo articolo dedicato agli effetti prodotti nel Biellese dalla crisi economica successiva al crollo di Wall Street dell’ottobre 1929, abbiamo preso in esame principalmente il periodo compreso tra gli ultimi due mesi del ’29 e la fine del 1930, sottolineando come la situazione economica italiana (e biellese in particolare) stesse già da alcuni anni attraversando una fase critica.

 

Il biennio 1931-1932 rappresentò il momento più acuto della crisi mondiale: nel 1931 le condizioni dell’economia europea peggiorarono ulteriormente a seguito del fallimento di alcune grandi banche tedesche e dell’austriaca Credit Anstalt e del rapido indebolimento della sterlina, che accelerò la svalutazione di numerose monete in tutto il mondo.

 

Le misure restrittive del commercio estero adottate da singoli paesi nel corso del 1932 (ad esempio l’imposizione di forti dazi sulle merci importate) provocarono una contrazione del commercio mondiale (se nel 1929 la cifra totale si aggirava introno ai 68.000 milioni di dollari – oro, nel 1931 si era scesi a poco più di 39.000 milioni, per poi arrivare a 26.855 nel 1932 e a 24.175 nel 1933). Solo nel 1933 si intravidero i primi spiragli di ripresa, pur con ulteriori brusche frenate.

 

In Italia vi fu il deciso intervento dello stato in campo economico, con la creazione dell’Istituto Mobiliare Italiano (I.M.I.) nel 1931 e dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (I.R.I.) nel 1933: «Con l’I.M.I. e soprattutto con l’I.R.I. si mirò […] da un alto allo smobilizzo finanziario e dall’altro alla riorganizzazione gestionale e produttiva del sistema industriale» (Luigi De Rosa, "La crisi economica del 1929").

 

La nuova politica economica del governo fascista provocò ripercussioni sull’intero sistema industriale italiano e in particolare su quello tessile che «pur rimanendo uno dei punti di forza dell’apparato produttivo italiano, scivolò su posizioni di secondaria importanza da cui non riuscì più a riprendersi» (Teresio Gamaccio, "L’industria laniera fra espansionismo e grande crisi: imprenditori, sindacato fascista e operai nel Biellese 1926 – 1933").

 

Per quanto riguarda la situazione dell’industria laniera biellese, se il 1931 rappresentò un anno caratterizzato da una massiccia esportazione (i manufatti italiani erano simili a quelli inglesi nella forma ma più scadenti nel tessuto e quindi vendibili a prezzi inferiori) e dal ristagno delle vendite sul fronte interno, il biennio 1932-33 segnò la ripresa della vendita di prodotti tessili sul mercato italiano a fronte della drastica diminuzione delle esportazioni, in conseguenza dei forti dazi applicati dall’Inghilterra sui manufatti lanieri.

 

Sul versante dei salari operai, gli industriali biellesi furono i promotori della richiesta di ulteriori riduzioni (dopo quelle operate nel 1927) comprese tra il 10 e il 15%; nell’ottobre del 1931 Leone Garbaccio, presidente dell’Unione Industriale di Biella, aveva giustificato così la proposta: «Le paghe corrisposte nel Biellese sono troppo elevate, tanto in linea assoluta che in linea relativa; in linea assoluta queste paghe sono in media corrispondenti ad 8/9 volte quelle d’anteguerra ed in linea relativa i salari biellesi sono i più elevati d’Italia, con differenze percentuali che , per il Veneto ad esempio, salgono in media al 30 per cento ed arrivano per alcuni stabilimenti al 50 per cento» (citato in Teresio Gamaccio, op. cit.).

 

Vi fu un duro scontro tra gli industriali biellesi rappresentati da Garbaccio, da un lato, e quelli vicentini e la Confindustria dall’altro, che bloccò il raggiungimento di un’intesa sul nuovo contratto locale.

 

Di fronte agli accordi sui contratti integrativi salariali raggiunti nelle zone di Vicenza, Prato e Mortara, i lanieri biellesi reagirono con la chiusura di alcuni stabilimenti (la Giuseppe Rivetti e figli chiuse quelli di Sordevolo e di Vigliano, licenziando 650 operai, la Ubertalli e figli cessò l’attività lasciando senza lavoro 350 lavoratori, la Anselmo Giletti di Ponzone ridusse di metà il personale, che passò da 900 a 450 operai), rendendo così reale il rischio di un aumento della disoccupazione.

 

Il braccio di ferro si concluse con la vittoria degli industriali biellesi: il concordato firmato a Roma nel novembre del 1933 stabilì l’abolizione del residuo caroviveri dell’1,20%, la riduzione del 5% sulle paghe di fatto al 1 luglio 1932, la riduzione dei minimi (per gli uomini sopra i 17 anni dell’1%, per quelli sotto i 17 anni del 4,80%, per le donne sopra i 17 anni del 3%), la riduzione del compenso per il lavoro straordinario e festivo dal 40% (per la prima ora) e 80% (oltre la prima) al 25 e 60%.

 

Abbiamo accennato, trattando del 1930, alla diminuzione dei prezzi dei generi di consumo, che avrebbe dovuto compensare le forti riduzioni salariali: in realtà, numerosi furono i casi in cui i commercianti non si attennero ai prezzi di vendita prefissati.


Il caso più emblematico riguarda il prezzo del pane: «[…] all’inizio del 1930 il prezzo del pane, confezionato con farina di grano abburattata [raffinata, n.d.a.] all’82 per cento in forma non superiore ai 200 grammi, era fissato a Biella dall’ultimo calmiere in 1,70 lire al chilogrammo ma […] in tutta la città non si trovava una forma di detto pane, mentre il prezzo corrente era invece di ben 2,20 lire cioè un quarto in più del prezzo stabilito, senza che l’autorità comunale intervenisse a ristabilire la situazione» (T. Gamaccio, op. cit.).

 

Alla luce di queste considerazioni, appare decisamente lontano dalla realtà l’invito lanciato dalle pagine de "il Biellese" ad effettuare acquisti per rimettere in moto l’economia: «Comprare vuol dire dare del sangue al commercio. Questo lo passa subito all’industria che, così, lavora. E, lavorando, dà il pane agli operai. Ed il ciclo, prima chiuso, si riapre».

 

D’altra parte, proprio sul giornale cattolico apparve nel settembre 1933 la denuncia di quanto i prezzi applicati a Biella fossero più alti di quelli in vigore in altre città come Torino e Milano: l’uva Moscato da tavola, che a Milano costava tra 1,60 e 2,20 Lire, a Biella si trovava a 2,90 Lire; il caffè al banco, a Torino 70 centesimi, a Roma 50, a Biella 80; i fichi, a Milano tra 0,80 e 1 Lira al kg, a Biella 2 Lire al kg.

 

All’inizio del 1931 la situazione non mostrava alcun segno di miglioramento; anche le occasioni di festa come il Carnevale sembravano cedere il passo alle preoccupazioni legate alla crisi: «Questa sera – scriveva il bisettimanale cattolico sul numero del 17 febbraio – muore il Carnevale che, poveretto, quest’anno s’è quasi dimenticato di nascere. Qualche buontempone ha tentato di darcene visione attraverso nasi di cartapesta e un po’ di rossetto sugli zigomi, ma sono stati tentativi più nostalgici che altro. Il getto di coriandoli ha cercato un po’ d’attività ma sinora nemmeno la pioggia di carta ha potuto ravvivare l’allegria».

 

La drammaticità del momento è confermata dalle “Istantanee pasquali … o quasi” pubblicate ancora su "il Biellese" dell’8 aprile 1931: «Tra il fumo delle marmitte passano ad uno ad uno. Sulla porta una donna del Comitato ritira un foglio di carta e pronuncia forte un numero. Il mestolo del cuoco affonda nella grande marmitta altrettante volte e rovescia nel pentolino la minestra calda e appetitosa […] Se ne vanno frettolosi appena serviti, senza salutarsi tra di loro, soddisfatti di liberarsi dalla presenza altrui. Non sono accattoni. Nei vestiti, nel portamento, nello sguardo che fugge e si abbassa rapido, denunciano la loro qualità di lavoratori, di buone madri di famiglia […] Gente pulita, con gli abiti scoloriti dal tempo, ma tenuti in ordine da un ago attento, da una spazzola veloce».

 

All’inizio di maggio il bilancio del Comitato per l’assistenza ai disoccupati presentava una spesa totale di 151.291,30 Lire per l’acquisto di generi alimentari, latte, vestiario, medicinali, legno e carbone, vino e per i sussidi in denaro e il personale di servizio; erano stati inoltre distribuiti, a 462 famiglie, 500 quintali di legna e carbone, 26 quintali di latte per bambini, 200 paia di calze di lana, 156 buoni di visita medica e medicinali.

 

Non tutti ovviamente sentivano la crisi allo stesso modo: e a chi stava meglio si rivolgeva l’articolo sulla moda del 1931, tornata «giovane, fresca e semplicissima, [con] la linea che esce intatta dagli abiti, eliminando ogni superfluo dettaglio». 


L’autore sottolineava come «la nota più saliente della stagione [fosse] senza dubbio il ritorno alle tinte vivaci e ai tessuti stampati» e proseguiva poi con involontaria ironia: «La necessità di economia che si fa sentire ovunque e che ha influito sui modelli, rendendoli così pratici e razionali, impone a tutte le signore, anche le più eleganti, di restringere le loro scelte alle cose meno costose e più solide».

 

Con l’approssimarsi del nuovo inverno, ricomparvero gli annunci sui provvedimenti per ovviare alla disoccupazione invernale e gli inviti a dare ciascuno il proprio contributo; la Cassa di risparmio stanziò (come nell’anno precedente) un fondo di 100.000 Lire.

 

La gestione dell’assistenza fu progressivamente affidata alle strutture del regime: la distribuzione dei buoni per il ritiro di generi di prima necessità avveniva ad esempio presso la sede dei Sindacati fascisti dell’industria, in via Ospedale.

 

Nel gennaio del 1932 lo stesso Mussolini inviò 50.000 Lire alle Opere Assistenziali della provincia: «La crisi continua a farsi sentire nonostante si facciano tutti gli sforzi per tener desti gli animi e vive le speranze per un ritorno alla normalità. Abbiamo assistito da qualche anno ad un succedersi di ricadute e di riprese che più che rafforzare la situazione ed avviarla verso una definitiva via d’uscita l’ha ricondotta nella sua fase di stati acuta con brillamenti di ripresa non favoriti da duraturo successo […] Il tenore di vita della popolazione e soprattutto dei consumatori tende sempre più al ribasso, in quanto è spaventosamente cresciuto il numero dei disoccupati in tutto il mondo […] si è pure accresciuta la riduzione di guadagno per i lavoratori occupati» ("il Biellese", 25.03.1932).

 

In autunno Biella ospitò la Mostra di Frutticoltura (presso la palestra di via Arnulfo) e la Festa dell’Uva (ai giardini pubblici): quest’ultima in particolare riscosse un buon successo di pubblico, che affollò i banchi e i chioschi collocati nella parte centrale dei giardini e ammirò esultante la sfilata dei carri vendemmiali di Biella, Lessona e Masserano.

 

Il 28 ottobre furono inaugurati in via Pietro Micca il nuovo palazzo delle Poste e Telegrafi e la nuova sede della Biblioteca civica (pomposamente chiamata «la casa degli 85mila inquilini») e del Museo cittadino.

 

A dicembre, presso la sala Politeama di via Ospedale, fu allestito e aperto al pubblico il Presepe artistico curato dal pittore e scultore Gino Piccioni; anche in questo caso i biellesi mostrarono di apprezzare l’iniziativa (5000 visitatori in soli due giorni).

 

L’arrivo dell’inverno segnò la ripresa delle iniziative di sostegno ai disoccupati affidate all’Ente Opere Assistenziali, di recente istituzione; tra le iniziative promosse dall’ente vi fu la distribuzione di un pacco natalizio ai disoccupati, consegnato appunto il giorno di Natale.

 

Per il Capodanno del 1933 furono concesse una razione supplementare di vino e una di carne, mentre a fine gennaio fu organizzata al teatro Sociale una serata artistico – sportiva a scopo benefico che vide la partecipazione del campione del mondo di spada, il marchese Cornaggia (la cui madre era biellese) affiancato da altri valenti schermitori locali. Il programma della serata comprese anche l’esecuzione della commedia brillante "La bocca chiusa", messa in scena dalla primaria compagnia drammatica dell’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche, il precursore della RAI) di Milano.

 

In tre mesi, da novembre a gennaio, erano state distribuite oltre 40t di viveri (800 razioni giornaliere di pane) e tuttavia la situazione rimaneva critica: «[…] ora si va attraversando il periodo più critico dell’annata, poiché i bisogni e le richieste sono sensibilmente aumentate con l’accrescersi della disoccupazione invernale e la rigidità della stagione. [È necessario] perciò che l’aiuto di tutti i biellesi continui e si intensifichi perché nessun operaio disoccupato manchi dell’indispensabile per il suo sostentamento e per la sua famiglia».

 

Ad aprile i versamenti in denaro all’organizzazione assistenziale del regime raggiunsero la cifra totale di 85.561,752 Lire.

 

Malgrado questi dati, che stavano a testimoniare la costante necessità di fondi per sopperire alle richieste di sostegno ai redditi più bassi e ai disoccupati, su "il Biellese" del 27 gennaio 1933 comparve un articolo, intitolato "Quanto si mangia e si beve a Biella", che sembrava ridimensionare la gravità della situazione: si trattava di un’intervista ad un funzionario di polizia tributaria, il quale sottolineava come a Biella si fosse raggiunta la cifra di 2 milioni e mezzo di Lire di dazio consumo, si bevesse vino buono («L vin ‘d pom el va gnint…») e si mangiasse carne di vitello di prima qualità.

 

Pare comunque che le preoccupazioni di alcuni lettori fossero legate al comportamento maleducato tenuto da certe persone durante gli spettacoli cinematografici o alla necessità di spostare l’orario di inizio di tali spettacoli dalle 20 e 30 alle 21, dal momento che fino a quell’ora il pubblico biellese non usciva di casa.

 

E c’era anche chi, per cercare un rimedio ai disagi della crisi, ricorreva, con buoni risultati, al gioco del lotto: due fortunati biellesi, ovviamente rimasti anonimi, con una quaterna secca sulla ruota di Torino riuscirono a spartirsi la non indifferente somma di 400.000 Lire.

 

Il 1933 segnò l’inizio di una parziale ripresa dell’industria biellese che contribuì a ridurre il numero dei disoccupati (passati, secondo i dati pubblicati a ottobre su "il Biellese", da 10.000 a 4.000): al buon risultato delle vendite sul mercato interno si contrapponevano però le difficoltà sui mercati internazionali, tanto che circolarono anche voci sulla presunta volontà di qualche industriale di delocalizzare in Jugoslavia la produzione per diminuirne i costi.

 

In conclusione, il quadro che emerge testimonia la durezza con cui la crisi del ’29 colpì il tessuto industriale e sociale biellese, provocando forti ripercussioni anche negli anni successivi: «La fine del 1933 – ha scritto Teresio Gamacciotrovò l’industria laniera biellese in condizioni ancora distanti dalla normalità, poiché la ripresa dell’attività produttiva non era avvenuta in tutti i rami e si manifestava con inevitabili contraccolpi che mettevano a dura prova la resistenza della classe imprenditoriale […] La debolezza intrinseca e la mancanza di dinamismo degli industriali furono confermate dalla estrema rigidità dell’atteggiamento nei confronti della classe operaia, che si trovò a dover pagare la maggior parte dei costi di una crisi senza precedenti».

 

 

FONTI

 

  • De Rosa Luigi, La crisi economica del 1929, Le Monnier, Firenze 1979
  • Gamaccio Teresio, L’industria laniera fra espansionismo e grande crisi: imprenditori, sindacato fascista e operai nel Biellese (1926-1933), Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Vercelli "Cino Moscatelli", Vercelli 1990
  • Il Popolo Biellese, bisettimanale del Fascio di Biella
  • il Biellese, bisettimanale cattolico